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L’Orcolat che ingoiò il Friuli

L’Orcolat che ingoiò il Friuli

Friuli Venezia Giulia. Venzone. Palazzo Orgnani Martina. 22 Dicembre 2016.

La luce si spegne e noi restiamo fermi, col fiato corto, sulle fredde sedie della stanza. Siamo soli, immobili, in attesa.

-Buio-

Lo schermo rimanda immagini di un borgo medievale bellissimo, intatto, nel colmo della fioritura primaverile. Persone serene passeggiano per la piazza. Gli abiti e le auto, sono quelle degli anni Settanta.

-Buio-

Si fa notte e la scena si sposta sull’imponente duomo del paese: il cielo è terso e stellato, ogni cosa è immobile. Se fossimo lì, sarebbe possibile sentire il profumo della primavera inoltrata, come succede con intensità solo nel mese di maggio. Tutto tace mentre, con lo sguardo, accarezziamo ogni pietra del duomo. Le persone sono al sicuro nelle loro case, strette nell’abbraccio del paese. Sognano il presente, sognano il domani, sognano un futuro che sta per spezzarsi.

E poi il mostro si sveglia. L’Orcolat inizia la sua feroce risalita dalle fauci della terra, corre senza pietà verso la superficie, con un solo obiettivo: la distruzione.

E per trenta interminabili secondi, la scena che si presenta ai nostri occhi è di panico, un terrore cieco che si propaga fino nelle viscere. Il boato ci assorda, le pietre che fino a qualche attimo prima abbiamo accarezzato con lo sguardo, iniziano a crollare senza scampo, senza salvezza.

-Buio-

Le immagini cambiano ancora e ciò che vediamo è uno scenario di guerra: paesi distrutti, vite finite, disperazione che si alza dalle macerie come qualcosa di palpabile.

-Buio-

Ora ci viene presentata la stessa scena con cui è iniziato il video: il paese ritorna alla vita, alla speranza, all’antico splendore, grazie alla determinazione di ferro del suo popolo, alle donazioni e all’aiuto dei volontari. Torna la primavera, tornano i tetti sulle teste, tornano le pietre al loro posto.

-Fine-

La luce si accende e io resto bloccata sulla sedia. Fisso Daniele con angoscia, le lacrime agli occhi, compagne fedeli ormai da questa mattina.

Ciò che vi ho appena descritto è quanto avvenuto durante la nostra recente visita in Friuli Venezia Giulia, alla mostra permanente “Tiere Motus”, realizzata come racconto della memoria per non dimenticare i drammatici eventi sismici del 1976.

Alle ore 21, del 6 maggio 1976, infatti, il Friuli venne devastato da un terribile terremoto che, dopo un’estate di scosse continue, si ripresentò per saldare il conto l’11 e il 15 settembre successivi, mettendo definitivamente in ginocchio le popolazioni già pesantemente colpite.

L’incredibile filmato in 3D che abbiamo appena visto, è una fedele ricostruzione, ottenuta dopo anni di attento studio, della distruzione del Duomo di Venzone durante la notte del 6 Maggio 1976: la scossa durò 57 interminabili secondi e io non riesco ad immaginare cosa possano aver provato le persone allora, considerato che personalmente sono morta dentro solo dopo 30 secondi. Al sicuro in un edificio antisismico. Avvisata preventivamente di quanto sarebbe successo. Assordata unicamente dal crollo di un edificio, non di un intero paese.

L’esposizione non solo è un viaggio nella memoria, ma un vero e proprio circuito culturale, scientifico, educativo, rivolto agli studenti e anche agli studiosi provenienti da tutto il mondo che, spesso, giungono fino a Venzone per approfondire la conoscenza del cosiddetto “Modello Friuli” e gli aspetti scientifici legati al terremoto.

E’ un modo per condividere l’esperienza maturata sul campo durante gli anni della ricostruzione, attraverso allestimenti multimediali, filmati di repertorio, fotografie e ricordi, dati e numeri. Per questioni di copyright non si può assolutamente fotografare nè riprendere all’interno del percorso espositivo, perciò le immagini che allego al testo sono quelle che ho scattato in mattinata a Gemona del Friuli, alla mostra permanente “Frammenti di Memoria”.

Il nostro viaggio in Friuli Venezia Giulia è stato non solo all’insegna della curiosità verso una nuova terra, ma anche della volontà ferrea e consapevole di affrontare ed approfondire un tema, quello del terremoto, talmente attuale in Italia da fare quasi male. Perché le cose che si conoscono, che non si dimenticano, sono affrontabili e sono meno temibili. Il terrore sta nell’inconsapevolezza. Nell’ignoto.

Gli eventi sismici del 1976 coinvolsero più di 160 comuni, anche se i danni furono riconosciuti solo a 137, colpirono 600.000 persone e provocarono oltre 1400 morti, seppure ne sono tutt’oggi segnalati 989 per problemi di omonimia. Persino l’epicentro era spostato rispetto a quanto inizialmente calcolato, molto più vicino al confine con l’attuale Slovenia, dove vi furono più di 200 morti, oltre a quelli “dimenticati” a causa dell’omertà del governo di Tito.

Teniamo conto che si trattò per lo più di errori commessi in assoluta buona fede: non eravamo nell’epoca di Internet e dei canali social, per cui le notizie non si diffondevano a macchia d’olio come accade ora; dei terremoti si sapeva ancora troppo poco o nulla, le strumentazioni erano imprecise. Pensate che nei primi notiziari, si parlava di forti scosse di terremoto a nord di Udine, in maniera vaga ed imprecisa…quando i giornalisti si misero in auto per raggiungere le località, si trovarono davanti agli occhi un vero scenario di guerra, che di vago non aveva nulla.

L’Orcolat, questa terrificante figura popolare friulana, era risalita dal cuore della terra per distruggere ogni cosa incontrasse sul proprio cammino. Ciò che non aveva calcolato era lo scontro diretto con il carattere e la determinazione del popolo friulano, abituato da secoli ad affrontare con rigore i propri nemici. Unito alla rete di aiuti che si strinse attorno al Friuli.

Non è un caso che il “Modello Friuli”, ancora oggi citato e studiato, sia esempio di vittoria, di rinascita, di risurrezione. Fu il popolo friulano artefice della ricostruzione, con un lavoro giornaliero che andava oltre al limite dell’attesa delle sovvenzioni e dei permessi. Fondamentale la decisione di rimettere in piedi prima di tutto le aziende e le attività produttive, che assicuravano lavoro e stipendio; contemporaneamente l’intervento sulle abitazioni che dovevano dare un tetto sicuro sulla testa; solo alla fine le chiese e i monumenti.

La particolare situazione politica dell’Italia, aprì la strada all’idea di dare ai sindaci dei paesi colpiti dal sisma, completo potere decisionale in modo tale da snellire notevolmente la burocrazia, bypassando le Province e la Regione, acquisendo e stanziando direttamente i fondi provenienti dall’Italia e dall’estero. E, anche in caso di blocchi od intoppi, i cittadini erano sempre in prima linea per protestare con forza, in modo tale da far valere i propri diritti.

In Friuli ogni persona e ogni famiglia, ha un racconto diverso su ciò che è stato il terremoto, anche sul periodo della ricostruzione, non per tutti sinonimo di immediato successo: i container sono stati a lungo una realtà per molta gente. Eppure il Friuli è risorto completamente, nonostante l’altissimo prezzo pagato.

La cosa fondamentale era ricostruire esattamente laddove i paesi sorgevano in precedenza, possibilmente in maniera fedele e con gli stessi materiali, ma ricostruire con consapevolezza, partendo da uno studio dei fenomeni sismici per poterli se non prevenire, almeno “rendere inoffensivi”. Ossia salvare vite umane.

L‘identità e il mantenimento delle comunità, furono applicati anche quando vennero allestite tende e container: si rese necessario tenere uniti i quartieri, i conoscenti, le famiglie, così come tenere unite le classi appena ripresero le lezioni. Era già difficile far fronte alla paura e all’ignoto, oltre che ad una mole di lavoro inumana…un minimo di certezza e di legame con la vita passata non erano opinabili. Soprattutto quando le cose precipitarono definitivamente dopo le scosse di settembre, e tante persone persero tutto nuovamente, o lo videro sbriciolarsi con ancor più cattiveria: nei tre mesi estivi, infatti, i friulani lavorarono alacremente per ricostruire le case e le attività, ma bastò un attimo per veder crollare di nuovo ogni cosa. Ecco perché ci si rese conto dell’importanza di ricostruire si in fretta, ma con una componente in più: la consapevolezza, la conoscenza del nemico da combattere.

Era diventata una corsa contro il tempo che le persone non potevano vincere: il rigido inverno era alle porte, i paesi solo macerie. Se la scossa di maggio aveva raso al suolo il Friuli, quelle di settembre avevano raso al suolo i friulani. L’Orcolat era tornato a mordere.

Si presentò la necessità di allontanare gli sfollati per trasferirli negli alberghi di Lignano Sabbiadoro: ho ancora davanti agli occhi le immagini di quell’esodo, che fanno parte dell’archivio di “Tiere Motus”, in particolare la foto che ritrae una donna, chiusa nella propria incredula disperazione, seduta su un bus che la porterà lontana dalla sua terra natia.

A quel punto, però, i friulani tirarono fuori un carattere che permise loro di fare il passo definitivo verso il successo: ogni giorno, con gli autobus messi a disposizione dalle amministrazioni, si muovevano dalla costa per riattivare la produzione nelle fabbriche e riprendere le attività; dopodiché ricominciarono a lavorare e guadagnare, fermandosi anche un paio d’ore extra per portare avanti la ricostruzione delle proprie abitazioni. Questo avvenne ogni giorno fino a quando non poterono rientrare a casa! Qualcuno si unì a parenti o magari vicini, per evitare il trasferimento e restare accanto ai luoghi della ricostruzione, tagliando notevolmente sulle tempistiche.

In quegli anni si calcola che in Friuli non vi fossero disoccupati…ciò dovrebbe attentamente far riflettere, vista l’attuale situazione lavorativa in Italia e gli eventi sismici che hanno di recente colpito Lazio, Umbria e Marche. E, mi permetto di dire visto l’annaspare nella ricostruzione, quello che ha colpito l’Abruzzo del 2009.

Questa mole serrata di lavoro, ad ogni modo, influì tantissimo sulla vita dei friulani e sulle patologie che si diffusero pesantemente negli anni successivi al sisma, come ad esempio gravi forme di stress e depressione. Non è un caso che, contemporaneamente alla ricostruzione, ad Udine nacque anche l’Università, in particolare le facoltà di ingegneria e medicina: in questo modo i giovani studiarono in maniera approfondita “il mostro” che aveva colpito la propria terra, creando anche gravi problematiche fisiche e psichiche.

Fondamentale in tutta la situazione, fu la macchina dei soccorsi e dei volontari, che intervennero prontamente e lavorarono insieme al popolo friulano ogni giorno, senza fermarsi nemmeno per festività o domeniche. All’inizio i friulani non compresero che queste persone si trovassero lì per lavorare gratis: nel corso dei secoli chiunque fosse arrivato nella loro terra, l’aveva fatto con l’intento di dominarli o pretendere qualcosa! Con orgoglio e discrezione, si avvicinavano per pagare i volontari, che sbalorditi rifiutavano: il dolore del Friuli era il dolore di tutti, lì si doveva ricostruire, aiutare con concretezza. Non di certo lucrare sulla disgrazia. Allora la riconoscenza discreta di questo popolo, arrivava sotto forma di salami, oppure formaggi, perché se l’imperativo era condividere, che lo si potesse fare anche con un gesto di ringraziamento.

Gli aiuti giungevano incessanti: denaro, mezzi, uomini da ogni parte d’Italia, da ogni reparto -pensate che i soli Alpini inviarono qualcosa come 15.000 uomini- ma anche da tutta Europa e dal mondo. Furono aiuti immediati e continui ma che, permettetemi di dire, ebbero successo per il modo in cui venne attuato lo schema di ricostruzione: il “Modello Friuli” era nato per dare risultati concreti. Gli stessi che sono sotto agli occhi di tutti, ogni volta che si visita una REGIONE INTEGRA.

A quarant’anni di distanza, in un’Italia scossa dai terremoti, con mezzi superiori, con le conoscenze, le donazioni ed una disoccupazione da film horror…noi non siamo in grado di ridare dignità ai nostri centri. Fate un salto all’Aquila o leggete il mio post per capire a cosa mi riferisco. Perché io non ho più parole per esprimere il mio sdegno.

Ci sono tantissime foto, frasi e documenti che mi hanno colpita durante la visita a “Tiere Motus”, ma ne voglio citare solo due: la prima sono una serie di immagini che ritraggono un matrimonio celebrato nelle tendopoli, a cui parteciparono tutti quanti, persino i volontari…una festa nel nome della speranza e della normalità; la seconda è il tema di un bimbo che racconta la vita nei container. Con la semplice schiettezza dei ragazzini, riesce a rendere un quadro di vita reale a metà tra l’avventura e il rimpianto: i mobili nuovi e la pulizia con cui mamma cura ogni angolo di quel container, non possono nulla contro il freddo che i termosifoni combattono a fatica, e i rumori che si propagano dalle pareti sottili. E’ bello essere tutti insieme e giocare con gli altri bambini, ma i disagi sono comunque all’ordine del giorno.

La nostra mattinata tra Gemona del Friuli e Venzone, in questo 22 dicembre, è stata una delle più laceranti-toccanti-educative che ci siano mai capitate; due mostre, “Frammenti di Memoria” a Gemona e “Tiere Motus” a Venzone, a mio modestissimo avviso imperdibili e necessarie, per capire, per imparare finalmente qualcosa. I due splendidi centri storici friulani rinati letteralmente dalle ceneri (di cui vi parlerò prossimamente nel diario di viaggio, anche per mostrarvi il modo in cui sono stati ricostruiti fedelmente), sono un simbolo per tutta la regione, per tutti i 137 comuni devastati dal terremoto. Secondo me sono un simbolo per tutta l’Italia.

Sto per dire una cosa che probabilmente attirerà su di me insulti ed ira: io amo la storia, amo l’arte, le ho sempre studiate e adoro andar per musei. Però a volte, trascurare un pochino una storia antica di cui si sa già tanto, a favore di una maggior conoscenza della storia contemporanea, e di eventi come quello del Friuli che sono di un’attualità dolorosa, forse sarebbe una piccola conquista di consapevolezza per tutti noi. E per fortuna esistono mostre come quelle di Gemona e Venzone, che permettono a tutti noi di conoscere.

Il nostro grazie, a questo proposito, va al gentilissimo curatore dell’esposizione “Tiere Motus” (ti chiedo scusa ma non so il tuo nome!), che non solo ha tenuto aperto il museo per me e Daniele ben oltre l’orario stabilito, per permetterci una visita completa, ma ci ha anche dato tantissime informazioni, delucidazioni, spiegazioni: l’abbiamo apprezzato tantissimo.

In questo 22 dicembre 2016, quarant’anni dopo il sisma, mi ritrovo a leggere una frase che recita:

IL FRIULI RINGRAZIA E NON DIMENTICA

Questa frase è presente in ogni angolo, su ogni monumento, lungo le strade. E voglio dirvi una cosa: che siamo tutti noi a dover ringraziare voi, per la lezione di umanità, di carattere, di determinazione che ci avete dato. Noi dobbiamo ringraziare voi per averci insegnato qualcosa, per averci dimostrato che l’aiuto pervenuto è servito esattamente a ciò a cui era destinato.

Grazie Friuli perché mi hai dato una lezione di vita.

Claudia B.

 

DA SAPERE…
L’esposizione “Frammenti di Memoria” a Gemona del Friuli è in Via Bini. L’ingresso è gratuito. Per maggiori informazioni, giorni e orari cliccate qui
La mostra “Tiere Motus” a Venzone, è in Via Mistruzzi. L’ingresso costa 5€. Per maggiori informazioni, giorni e orari, cliccate qui

10 commenti

  1. Purtroppo i terremoti sono degli eventi che si sono verificati spesso nel nostro Paese e, sicuramente, si verificheranno anche nel futuro.
    Non possiamo prevederli e l’unica cosa che possiamo fare per difenderci è imparare dagli errori passati, migliorare con ogni mezzo gli edifici passati per renderli antisismici, costruire nuovi palazzi all’avanguardia e preparare le persone ad affrontare questi eventi catastrofici.
    Sono molto vicina al Friuli, così come all’Umbria e a tutte le altre regioni colpite nel tempo da questi grandi disastri.

    1. Hai centrato il punto perfettamente. Purtroppo non possiamo fermare la natura, né prevenire come e dove colpirà. Ma oggi al contrario di quarant’anni fa abbiamo almeno qualche conoscenza in più per poter salvare vite umane. Che poi è ciò che conta sopra ogni cosa.
      Il “Modello Friuli” dovrebbe ancora insegnare in questo. Sai, non sarebbe una tragedia metterci anche dieci anni in più nella ricostruzione, ma intervenire con coscienza, con consapevolezza. Speriamo davvero di riavere indietro questi pezzi d’Italia così belli e così sensibili.
      Grazie per essere passata!
      Claudia B.

  2. L'OrsaNelCarro

    Mammamia, è solo una parola dialettale ma Orcolat rende benissimo l’idea di una creatura che viene dalla terra affamata di distruzione.
    Ho passato i primi anni della mia vita in Umbria, come ben sappiamo una terra a forte rischio sismico e ricordo bene le notti passate in macchina già dalla prima scossa. Poi ci siamo trasferiti in Campania, altra terra che più volte ha assaggiato l’Orcolat. Pensa che fino a qualche anno fa la gente (reduce del terribile terremoto dell’80) da noi ancora abitava nelle casette di legno o nei container DI AMIANTO! Il nostro centro storico è stato ricostruito solo 15 anni fa ed ha perso irrimediabilmente tutta la sua identità. Troppi si sono trasferiti altrove e troppi ancora si sono stancati di aspettare ed hanno “ceduto” le loro proprietà.
    Ho sentito parlare del modello Friuli solo recentemente e lo trovo un modello non solo di ricostruzione ma un modello di vita, un modello che dovrebbe insegnare a tutti gli italiani come ci si rimbocchi le maniche e come ci si rialzi dopo una tragedia. Non è polemica la mia e non è demagogismo ma i popoli del nord Italia sanno, ed hanno sempre saputo, che nella vita “non si deve aspettare.” ma si “deve fare”.
    Bellissimo reportage Claudia, trovo molto formativo inserire queste esperienze durante un viaggio!
    A presto!

    1. Hai toccato un punto dolente Daniela, sfiorato il nervo giusto: credo anche io come te che al nord abbiano questa incredibile capacità di soffocare le lacrime con il “si di deve fare”. Perché alla fine i friulani non è che abbiano subito meno dell’Irpinia o dell’Umbria…semplicemente non si sono lasciati vincere e non si sono fermati in attesa che le cose accadessero.
      Perché ovviamente in Italia non esiste sicurezza sul fatto che il denaro promesso arrivi, oppure che la burocrazia agevoli in funzione di una tragedia: no, in Italia la via più semplice non è quella sempre percorribile. Mi rendo anche conto che chi perde tutto e non ha più nulla, difficilmente saprà come intervenire. Ma nemmeno in Friuli avevano più nulla, solo la volontà di rimboccarsi le maniche e lavorare come muli, di ricostruire quella amata terra senza farle perdere identità: e Dio se ci sono riusciti! Dovresti vedere che capolavoro hanno fatto!
      Sai che i friulani vorrebbero aiutare con consigli, fondi e mezzi, le popolazioni attualmente colpite dal sisma…solo che è difficile anche cercare di andare incontro alle singole realtà, entrando nella loro drammatica situazione in punta di piedi, perché il rischio è che un consiglio venga magari recepito male. Invece io sono dell’idea che, a distanza di quarant’anni, il “Modello Friuli” possa ancora portare grandi successi. A meno che non si “schianti” contro lo Stato e contro la mentalità.
      Se solo si riuscisse a capire l’importanza di impiegarci anche dieci anni in più, ma ricostruire con consapevolezza! Se solo si potesse accettare di rimettere in sesto prima le attività lavorative, le abitazioni e solo alla fine chiese e monumenti! Se le persone riuscissero ad imparare le basi per intervenire materialmente e concretamente, senza dover aspettare le ditte! Nei limiti, ovviamente, del trovarsi nel 2017, non più negli anni Settanta.
      Incrociamo le dita e speriamo Daniela, perché dopo la visita a L’Aquila di due anni fa io la speranza l’ho un pò persa per strada…
      Grazie per essere passata ed avermi lasciato il tuo pensiero, un bacio!
      Claudia B.

    1. Grazie, per me significa molto. Ho pensato a lungo a come presentare questo post, cercando di dare informazioni e trasmettere, contemporaneamente, tutto quello che ho provato io durante le visite.
      Ci tenevo tanto a far capire fino in fondo la grande determinazione e l’orgoglio dei friulani, che hanno vissuto qualcosa di inenarrabile trovando la forza per risollevarsi non una, ma due volte.
      Non è stata una giornata facile per me, ma l’ho voluta con tutta me stessa per conoscere e darmi una speranza per quanto riguarda gli ultimi episodi verificatisi nel centro Italia.
      Mi auguro che altri abbiano voglia di raggiungere il Friuli e vedere con i propri occhi queste mostre permanenti oltre alla perfezione della rinascita.
      Grazie mille per aver letto il mio post,
      Claudia B.

  3. Anna Maria Barbieri

    Grazie Claudia mi hai commossa e mi hai ricordato che la speranza non è vana, la speranza che anche i paesi del centritalia risorgano.

    1. E’ stato uno dei motivi che mi ha spinta in Friuli lo sai? Non possiamo assolutamente pensare che quei luoghi bellissimi siano persi, anzi dobbiamo credere sul serio che tutto tornerà come prima.
      Possiamo solo sperare in alcune cose: prima di tutto che le istituzioni sappiano fare un passo indietro come nel caso del Friuli, anche se sarà difficile; sperare che la scelta di Errani si riveli una scelta giusta oltre che un caso unico nel suo genere (in fondo nello stesso Friuli il successo è venuto da una scelta fuori dal comune); pregare che i cittadini trovino la forza e la determinazione che hanno trovato i friulani. Anche quella di agire, laddove possibile, senza attendere aiuti che potrebbero seguire la strada più lunga 🙁 Purtroppo quando ci sono di mezzo i soldi è difficile fidarsi anche di chi dice di agire a fin di bene…
      Incrociamo le dita Anna Maria. Un bacione.
      Claudia B.

  4. Che angoscia, non riesco nemmeno a immaginare cosa si possa provare durante il terremoto e dopo, quando ti rendi conto che hai perso tutto. Ricordo delle sensazioni simili quando qualche anno fa sono stata vicino a Longarone, dove negli anni Sessanta il disastro della diga del Vajont provocò la scomparsa di un intero paese, Da pelle d’oca.

    1. Brava! Hai fatto l’esempio giusto quanto a sensazioni di terrore! Tra parentesi quella è una delle prossime destinazioni: non è che voglio fare un tour della disperazione, ma capire e conoscere qualcosa in più sulle catastrofi della nostra realtà, si.
      Per me è stata una giornata lunga dalle impressioni contrastanti. Se devo essere onesta, mi sono trovata spesso in difficoltà perché avevo le lacrime che mi scendevano dagli occhi e non riuscivo a fermarle. Non ti dico la notte: mi sono svegliata in preda all’angoscia e ciao sonno…
      Pensare che stavo solo vivendo quella situazione attraverso le testimonianze e il simulatore che hanno ideato a “Tiere Motus”! Impossibile, credo, capire fino in fondo il dramma di chi perde tutto e il terremoto (o una qualsiasi catastrofe naturale) se la porta dentro.
      Grazie per essere passata Silvia.
      Claudia B.

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